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Non Fate Troppi Pettegolezzi: Demetrio Paolin e la Dipendenza dalla Scrittura

Creato il 15 giugno 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Non Fate Troppi Pettegolezzi: Demetrio Paolin e la Dipendenza dalla Scrittura

"Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi". Queste le ultime parole di Cesare Pavese, parole che l'autore de La luna e i falò abbandona, prima di suicidarsi, in una camera dell'Hotel Roma di Torino.

Demetrio Paolin (nato in provincia di Asti, ma torinese d'adozione), nel suo libro Non fate troppi pettegolezzi. La mia dipendenza dalla scrittura (pubblicato da LiberAria Editrice nella collana METRONOMI), parte proprio dall'addio alla vita di Pavese per compiere un viaggio all'interno delle esistenze e dell'arte di quattro celebri scrittori (Emilio Salgari, Cesare Pavese, Primo Levi e Franco Lucentini), sullo sfondo di memorie personali e, soprattutto, della città che li accomuna e che, in un certo senso, plasma i loro stili: Torino.

Quattro vite, dunque. Quattro (tragiche) storie di altrettanti illustri intellettuali torinesi: personalità che, per ragioni simili e nello stesso tempo molto diverse, hanno dedicato l'intera esistenza alla scrittura.

"La condizione dello scrittore, lo diceva Benjamin nel saggio su Leskov, è una condizione di morente: si scrive perché si è sul limitare della vita, perché si sente quel tremulo sottile del sangue che gira ancora nel corpo". Attraverso le vite e le parole di questi quattro letterati a lui particolarmente cari, che hanno condiviso la stessa "uscita di scena" (il suicidio inteso come la precisa scelta di non esserci più), Paolin tratteggia un incrocio di opere e di luoghi, più o meno quotidiani, dove hanno vissuto, pensato e creato queste grandi personalità del passato. Da quest'intreccio nasce e si sviluppa l'identità dello stesso Demetrio Paolin, uomo e scrittore. Il suo personale vissuto emerge tra le righe in maniera quasi invisibile, ma indissolubile, rispetto al narrato.

Non fate troppi pettegolezzi non è un romanzo e, come afferma lo stesso autore già nella nota introduttiva, "non è un saggio di critica letteraria, anche se parla di quattro scrittori; non è neppure un libro di fiction e di memorie, pur tuttavia alcune volte si narrano episodi di vita privata o immaginazioni fittizie".

Ma allora come definirlo? Sempre Paolin ci viene in soccorso scrivendo: "Se proprio gli si dovesse richiedere una definizione, l'autore direbbe che questo è il suo esame di coscienza". Quindi descrivere e capire sé stessi attraverso gli altri. È questo che alla fine è la scrittura (e la lettura).

Non fate troppi pettegolezzi diventa così una riflessione sull'arte, un interrogarsi sul senso dello scrivere e sulla sua funzione sociale. Ma è anche un modo diverso di raccontare la letteratura, unendo critica letteraria, (auto)biografia e spunti narrativi.

Paolin sceglie quindi un taglio non convenzionale per queste quattro storie, che si susseguono in ordine temporale secondo l'anno in cui Salgari, Pavese, Levi e Lucentini sono morti. Le pagine sono ricche di riferimenti alla tradizione letteraria, dalla Bibbia ai classici greci, fino ad arrivare a Dante, e l'invenzione narrativa ben si amalgama con lo studio delle opere dei quattro autori, impreziosito comunque da rimandi colti ed originali.

Oltre all'empatìa e al profondo rispetto che egli nutre verso questi scrittori, dalle pagine di Paolin emerge chiaramente, quasi in filigrana, un'ulteriore protagonista: la città di Torino. "Ma io credo sempre e mi illudo che sia così che le città in cui abiti, in cui decidi che è casa, ti entrino nel sangue e ti facciano a loro immagine e somiglianza". Grazie alle quattro parti del volume, il lettore si trova a percorrere una passeggiata simbolica ed artistica attraverso una Torino nascosta, dalla geografia contemporaneamente concreta, quotidiana ed emozionale.

"Il cielo di Torino ha un'intensità diversa da quello che puoi vedere nel resto d'Italia. [...] Torino ha una luce maestosa e regale che ora illumina tutta la città e immagino che abbia accecato Salgari nei giorni di primavera o d'inverno, quando le nubi spariscono; e guardo il cielo, come fosse quello che Salgari ha trattenuto sulla retina come l'ultimo barlume della sua esistenza".

E ancora: "L'ippocastano è ancora lì. Tutte le volte che ci passo penso alla lirica scritta da Levi per l'albero che ogni giorno vedeva davanti al suo portone e che stava lì ad aspettarlo, quando lo scrittore usciva per andare a lavorare o quando rincasava dopo otto ore di fabbrica. Ci sono volte, quando la notte si popola di incubi o di cattivi presagi, che con la bici vengo fin qui e mi appoggio a quell'ippocastano e guardo il portone".

È questo, forse, l'aspetto più interessante del libro di Demetrio Paolin: chi legge si trova immerso in una città vivida, identificata attraverso dei precisi punti fisici, che svelano, come fosse un tributo, il ritratto poetico di una Torino vissuta ogni giorno e profondamente amata.


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